(Christian Speranza- Torino) L’auditorium Arturo Toscanini di Torino è stato il teatro di due splendidi concerti l’11 e il 18 aprile 2024, in replica il 12 e il 19. Concerti “gemelli”, sia per il tipo di programma, tutto incentrato su brani a cavallo tra Sette e Ottocento, sia per la loro impaginazione: un’Ouverture da un’opera, un concerto per violino e una sinfonia di Beethoven. Gemelli anche nella formazione, con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai (OSN) diretta entrambe le volte da Ottavio Dantone.
Ha aperto la prima serata l’Ouverture delle Nozze di Figaro KV 492 di Mozart: una manciata di minuti in forma-sonata senza sviluppo, con funzione di introdurre non tanto i temi dell’opera, quanto il suo spirito, quel suo turbinare travolgente, sì da rendere “in anteprima” la folle journée che seguirà di lì a poco. Ed è proprio questa joie de vivre che Dantone comunica con la sua sapida direzione, alla testa di una compagine che, sia detto qui affinché valga anche per il seguito, si distingue per brillantezza di suono, precisione degli attacchi ed equilibrio interno fra le sezioni: qualità note a chi, come chi scrive, la segue abitualmente
Si continua con Mozart e il suo Concerto per violino e orchestra nº5 in la maggiore KV 219. Mentre i ventisette per pianoforte coprono tutto l’arco della sua vita, i cinque per violino si concentrano forse in un solo anno, il 1775: una produzione giovanile mai più ripresa in futuro. Il Quinto è famoso soprattutto per il suo rondò finale, con l’inaspettata parentesi in minore di carattere turchesco. La musica “alla turca” era in quegli anni parecchio in voga, dato l’approssimarsi del centenario della battaglia di Vienna (1683) e della cacciata degli Ottomani: e chissà che questa tourquoiserie incastonata lì al centro non sia proprio un omaggio alla moda dell’epoca? A parte questa curiosità, il Quinto è un gioiellino di cantabilità e leggerezza. Alessandro Milani, primo violino dell’OSN, chiamato a interpretarlo, ne incesella le pagine con gusto, garbo e sopraffina souplesse, con quei riccioli tutti rococò di cadenzine non scritte, arbitrarie eppure sottintese, che impreziosiscono l’esecuzione improntandola all’unicità. Dantone gli sta dietro da par suo, alleggerendo il suono nel delicato Adagio centrale ma scurendolo a dovere specialmente nella turcheria, col ritmo “alla turca” ben calcato e le scale cromatiche rese ondivaghe folate di vento di apprezzabile escursione dinamica. Fuori programma di classe, infine col Grave dalla Sonata per violino solo nº2 in la minore BWV 1003 di Bach.
Chiude la serata la beethoveniana Sinfonia nº4 in si bemolle maggiore Op.60. Sulla «snella fanciulla greca fra due giganti nordici», come la definì Schumann, intendendo coi giganti il Fasolt della Terza, l’”Eroica”, la più lunga e complessa sinfonia scritta fino a quel momento, e il Fafner della Quinta, la famosa sinfonia “del destino”, pesa proprio il fatto che sia caduta fra la Terza e la Quinta: perché, pur esteriormente meno accattivante delle consorelle, più corta e scritta in un periodo insolitamente breve per Beethoven, nell’estate del 1806, accoglie in sé una raffinatezza di scrittura e una volontà di sperimentazione non inferiore alle altre: semmai più discreta. Nell’Adagio introduttivo c’è già la sospensione del tempo dell’incipit del “Titano” di Mahler, e l’Allegro vivace che segue galvanizza per contrasto. L’Adagio è un esperimento ritmico che non rinuncia alla soavità, tutto basato su un inciso di due note che sospinge incessantemente il discorso; il terzo movimento è uno Scherzo in 3/4 che si crede in 2, il finale un moto perpetuo che rispecchia simmetricamente la vorticosità delle Nozze a inizio serata, in un oroborico alfa e omega.
Proprio la vitalità e la verve, e oso dire l’umorismo di questa pagina ahimè spesso negletta balzano in primo piano nella direzione di Dantone, che smette i panni del cortigiano cortese per farsi allegro compagnone, talvolta irriverente ma mai maleducato. La sua è una direzione nerboruta, forte, che non perde mai di tensione, in questo evidenziando il lato più rustico della musica beethoveniana. Rusticità che non vuol dire approssimatività, semmai un modo di intendere. L’Allegro vivace che apre la sinfonia è trattato con grande attenzione alla trasparenza delle linee e della forma, investito però da focosità sbarazzina. Lo stesso valga per l’Allegro ma non troppo conclusivo. E anche laddove le raffinatezze si fanno più facili a cogliersi, in quell’Adagio che per Berlioz era stato «sospirato dall’Arcangelo Gabriele», il pulsus ritmico che lo innerva da cima a fondo viene evidenziato senza cedere alle mollezze lusinghiere dell’afflato melodico, peraltro qui più contenuto che in altri Adagi beethoveniani.
Ancor più originale il secondo concerto, che affonda nel patrimonio musicale italiano per cavarne due gemme di rarissima esecuzione: l’Ouverture della Vestale di Spontini, infatti, mancava alla Rai di Torino dal 1938! Dantone, per questo brano così austero, carica l’orchestra di un suono paludato, plumbeo, come la tragedia che graverà sulla protagonista Giulia. Un ottimo avvio di serata, che fin da subito spella le mani del pubblico, invero non così numeroso come in altre sere (la solita perniciosa associazione “non conosco-non mi fido-non vado”) e un ottimo invito per chi vorrà ascoltare l’opera intera, a novembre, al Municipale di Piacenza.
Star della serata si impone però il ventiquattrenne Vikram Francesco Sedona, che, strumento in spalla, fa rivivere il Concerto per violino e orchestra nº22 in la minore di Giovan Battista Viotti. I torinesi possono così dare un “volto sonoro” al dedicatario di quella piccola via del centro, sotto i cui portici, alcuni anni fa, apriva (e dolorosamente chiudeva) i battenti un negozio di CD di classica, rara avis ormai prossima all’estinzione. Il supposto autore della Marsigliese firmava ben ventinove concerti per violino che lo portarono dalle brume vercellesi di Fontanetto Po alla corte d’Inghilterra (morirà infatti a Londra nel 1824: un altro musicista di cui, nel 2024, assieme almeno a Puccini, Bruckner e Smetana, ricorre il centenario o il bicentenario della nascita o della morte: e nessuno se lo fila…). Di questi, il nº22, del 1793-95, è il più famoso, col suo attacco molto vicino al rondò del KV 491 di Mozart, il suo stile tra il retorico e il preromantico, già “chopiniano” nelle volenterose concessioni a divagazioni virtuosistiche che abbondano nel Moderato iniziale, nella cantabilità distesa e sognante dell’Adagio e nel carattere pirotecnico dell’Agitato assai. Nella lettura di Sedona c’è tutto questo e molto di più. Il giovane trevigiano respira coi respiri del suo fraseggio, vibrando nelle arcate melodiche così come immergendosi nelle volatine di bravura. Il suo invidiabile palmarès è più che giustificato e palpabile in un’interpretazione di sicura presa e di indubbio valore. In risposta ai prolungati applausi, l’encore gareggia in rarità col Concerto: e allora, ecco Sedona proporre Laudamini di George Enescu (sul titolo pesa invero qualche perplessità…).
Se il primo concerto si concludeva con la Quarta di Beethoven, il secondo termina con l’Ottava. La Sinfonia nº8 in fa maggiore Op.93, del 1812, è l’altra sorella povera del gruppo. Per la sua brevità, una mezz’ora scarsa, viene spesso anteposta alla Nona nelle serate-maratone delle integrali beethoveniane: col rischio, anzi con la certezza, che ne costituisca solo un sapido preludio. Abbinare la Quarta all’Ottava, dedicando loro due seconde parti di due concerti diversi ma vicini, è scelta intelligente che permette di isolare le due “sorelline” conferendo loro la giusta importanza. Perché per certi versi Beethoven adotta nell’Ottava un linguaggio che non adotterà più in campo sinfonico. E che adotta solo qui. L’Ottava è un microcosmo concentrato ove tutto trova posto, a partire dall’Allegro vivace e con brio di apertura di studiata compattezza, in cui la forma-sonata è intellegibile e plasmata quanto il suo sviluppo è denso e ricco; come una stella prima di esplodere si contrae, così Beethoven, prima di espandersi come nessun altro aveva fatto e farà per un bel po’ con la Nona, comprime nell’Ottava la forma raddensandola come mai prima d’ora, senza rinunciare all’arguzia di un secondo movimento che, sui quarti scanditi dei legni, celebra sorridendo l’invenzione del momento, il metronomo di Mälzel, recuperando un canone per voci precedente e innestandolo su un gioco da orologio meccanico, e un finale che ricalca quello della Quarta, ma che tra frenesie, concitazioni e arresti repentini, quella mano di ubriaco che Friedrich Wieck ravvisava nella Settima sembra farsi ancor più sfrontata. In realtà, sempre nel finale, vi sono raffinatezze di linguaggio che sfuggono a un primo ascolto: la poliritmia è uno di questi. E c’è anche una non taciuta sfida alle possibilità esecutive del brano, nei ribattuti velocissimi degli archi che devono risultare quasi “sporchi” per comunicare davvero, e che perderebbero gran parte del loro fascino se rallentati. E che dire del terzo movimento, che Beethoven indica in Tempo di menuetto, ma che del menuetto conserva solo l’esoscheletro rinsecchito e vuoto, in realtà parodiandolo con volute caricaturali e pompose, per poi autocitarsi, nel Trio, dove ricompare un suo vecchio tema del 1792? Vero andirivieni temporale che fa di questo pezzo un calco da museo da esporre come finta reliquia.
Forse in alcuni casi l’Ottava è troppo anche per Dantone, che nel primo movimento si lascia soverchiare talvolta dalle percussioni, un po’ troppo insistite e col risultato di offuscare il discorso melodico, e che non rende agile farfalla l’Allegro scherzando, ancora troppo goffo. Fa meglio negli ultimi due movimenti, dove quella rusticità sopraccennata è bene far più presente. La condotta direttoriale è la stessa cui è stata improntata la Quarta: robustezza, vigoria, vigile controllo del suono, squadratura. Ma qui c’è bisogno anche di morbidezza, di leggerezza, persino di malizia. Non una brutta lettura, intendiamoci: qualche raffinatezza in più qua e là, tuttavia, non avrebbe guastato, ecco, qualche tornitura di accenti e qualche scavo nelle pieghe della veste strumentale sarebbero state opportune, in una sinfonia come dicevo breve ma ricca di spunti, considerata la Cenerentola di tutte, che aspetta la bacchetta non di una fata ma di un direttore per rivelare la principessa che è.