(Christian Speranza- Verona) Non il solito Falstaff. Dici Shakespeare, dici Verona: pensi a Romeo e Giulietta. E invece no. Al Teatro Filarmonico è di scena Falstaff. Non quello di Verdi, però. Perché la stagione operistica della Verona che non è l’Arena si distingue per proporre la chicca, la perla, l’insolito. E questa volta lo fa col Falstaff, ossia Le tre burle di Antonio Salieri. Se già nel 2023 aveva omaggiato un autore locale con l’Amleto del veronese Franco Faccio, quest’anno il Filarmonico continua a valorizzare le risorse del territorio: nato a Legnago nel 1750, Salieri non sarà proprio di Verona, ma è pur sempre della provincia. E la scelta di inaugurare la stagione 2025 proprio con lui e proprio con questo titolo non è casuale.
Sì, perché l’elegante teatro del Bibbiena (uno dei Bibbiena, perché sono tanti, tutti architetti), costruito fra il 1716 e il 1729, venne distrutto una prima volta nel 1749, reinaugurato nel 1754 e distrutto una seconda volta dalle bombe del 23 febbraio 1945. E risorse solo trent’anni dopo, nel 1975, reinaugurato per la terza volta proprio col Falstaff di Salieri.
La prima assoluta avvenne invece al Teatro di Porta Carinzia il 3 gennaio 1799, in una Vienna orfana di Mozart da otto anni ma fervida culla di nuovi talenti come Beethoven e Schubert. E anche del nostro Salieri, che di loro fu uno degli insegnanti e che degli Asburgo fu l’ultimo Kapellmeister, dal 1774 al 1824, un anno prima di morire, nel 1825. Un bel gesto, quindi, quello di commemorare i duecento anni dalla sua scomparsa con la ripresa di un titolo che, da quel 1975, tornò a Verona nel solo 1981 e poi mai più.
Altro motivo per riportare il Falstaff salieriano al Filarmonico è il fatto che Cecilia Gasdia, attuale sovrintendente del Teatro, è stata parte del cast dell’ultima ripresa italiana del titolo: Parma 1987.
Nel cinquantesimo anniversario della sua riapertura, al Filarmonico prende vita una recita frizzante e mobilissima siglata da Paolo Valerio, che, assistito da Giulia Bonghi, firma anche i costumi. Costumi che rimandano al Settecento contemporaneo di Salieri, tutto parrucche, pizzi, farsetti e livree in delicate, oleose tinte pastello. Sir John Falstaff invece si presenta in sgargiante blusa rossa (come pantaloni e scarpe) e corpetto giallo (come le calze). Le scene, di Ezio Antonelli, assistito da Matteo Semprini e Livio Savini, che curano anche il project design, contestualizzano un Settecento veneziano: morbidi riflessi acquatici fluttuano su grandi pannelli a specchio sullo sfondo, dove si proiettano immagini di tipiche case lagunari, muri colorati un po’ scrostati e trifore di foggia moresca. Non è l’Inghilterra vittoriana del Bardo: ma è la Venezia del Mercante, di Otello, quindi anche un po’ di Shakespeare; ed è, quella del Settecento, la Venezia di Casanova, con cui il regista istituisce un paragone di un Falstaff Casanova mancato.
Gli arredi di scena sono essenziali, sufficienti a connotare ciò che serve, dal dondolo e dalle altalene per Sir John e le Mistress, al baldacchino per la camera di Falstaff, all’immancabile cesto dei «pannilini biechi» (questo però è il Falstaff di Verdi), fino alla suggestiva ambientazione notturna finale, dove frascami penduli protendono il fogliame su barbuti satiri bianco-marmorei, lumeggiati con sagacia da Claudio Schmid e coreografati da Daniela Schiavone, la quale pensa ad animare la recita fin dalla Sinfonia con l’andirivieni di frenetici servitori che, più avanti, cercano inutilmente di spostare il cesto appesantito dalla celata mole dell’obeso baronetto.
L’ottima Orchestra della Fondazione Arena di Verona è diretta con perizia da Francesco Ommassini, che in aprile familiarizzerà di nuovo con Salieri dirigendo la sua Passione, e che qui ha il pregio di dettare alla rappresentazione ritmi vivi ma non precipitosi, anche grazie a qualche piccolo taglio che non impedisce di seguire la trama purché la si sappia. Ben bilanciato il rapporto buca-palcoscenico, con le voci sempre favorite da un volume orchestrale ottimale e mai irriverente.
Giulio Mastrototaro è il mattatore della serata. Il suo è un Falstaff brioso, ruspante e spontaneo, e si fa valere grazie a una voce schietta e croccante, da vero basso buffo, con un bel canto sillabato. Il Master Ford di Marco Ciaponi si distingue per il suo timbro squillante da tenore rossiniano, per gli acuti potenti e puliti e per un canto di grazia sempre molto comunicativo. Riuscitissima anche la sua prestazione attoriale. Master Slender è Michele Patti, ben calato nella parte del marito più posato e flemmatico, dalla pregevole vocalità calda e timbrata, mentre Romano Dal Zovo, dallo strumento più scuro e risonante, caratterizza a dovere il paradigmatico servitore furbo, vessato e un po’ scansafatiche che è Bardolf.
Il contraltare femminile è dominato dalla Mistress Ford di Gilda Fiume, ottima e duttile belcantista chiamata a cantare anche in tedesco nei panni del suo alter ego tirolese. Non da meno è la Mistress Slender di Laura Verrecchia, dal velluto vocale particolarmente morbido e ambrato. Da citare infine la Betty di Eleonora Bellocci, penetrante timbro cristallino, apprezzabile proiezione di voce e fantasiose risorse attoriali. L’ultima recita di questo Falstaff, domenica 26 gennaio 2025, viene salutata da calorosi applausi, e fa piacere notare la presenza tra il pubblico di molti giovani e giovanissimi.