(Christian Speranza) Lo Stabat Mater è un componimento medievale attribuito a Jacopone da Todi che descrive la Vergine afflitta ai piedi della croce. Musicalmente ha affascinato compositori d’ogni epoca: da Orlando di Lasso nel Cinquecento al vivente Piero Caraba, passando per Jommelli, Vivaldi, Scarlatti, Paisiello e molti altri, non si contano quanti l’hanno posto in musica. Accanto a quelli più famosi di Pergolesi, Rossini, Verdi e Dvořák, però, faticano a imporsi quelli degli altri meno conosciuti: in questo concerto il Teatro Regio di Torino può vantarsi di rispolverare quello di Francis Poulenc, di rarissima esecuzione, composto nel 1950-51 e dedicato alla memoria dell’amico Christian Bérard, da poco scomparso.

 A farlo rivivere ci pensano l’Orchestra e il Coro, per l’appunto, del Regio, diretti da James Conlon al suo debutto con questa blasonata compagine. A Torino è ormai di casa, dopo essere stato Direttore principale dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai (OSN) dal 2016 al 2020. Curioso che, pur a distanza di qualche centinaio di metri, nel centro storico della città, non avesse mai messo piede al Regio. Ma c’è una prima volta per tutto. E che prima volta, signori. Lungo i dodici brani in cui Poulenc suddivide il testo dello Stabat, si alternano atteggiamenti contrastanti, dal dolente e riflessivo dei numeri I, III, VIII, IX al tragico e corrusco dei numeri II, V e XI. A prevalere, però, è una pacata, composta mestizia. Tutto questo trapela dall’attenta bacchetta di Conlon, che screzia l’esecuzione con attenzione, aderendo per così dire spiritualmente al significato letterale del testo e a quello addizionale, più completo e comunicativo, che viene ad avere rivestito di note. Gran parte della composizione prevede l’intervento del coro: e col Coro del Regio, preparato dall’attento e zelante Ulisse Trabacchin, si può andare sul sicuro, poiché restituisce una performance ricca di pathos e sfumature, non priva in certi passaggi di accesa drammaticità. L’omogeneità dell’amalgama timbrico resta in ogni caso il suo tratto distintivo, e ce ne si accorge quando, al n. VIII, l’orchestra tace e il Coro canta a cappella: ci si aspettava molto, si è avuto anche di più.

  I nn. VI, X e XII prevedono anche un soprano. Qui per noi è stata la sudafricana Masabane Cecilia Rangwanasha. Nativa di Lebowakgomo, il suo è uno di quei nomi della lirica complicati (uno su tutti: Amartuvshin Enkhbat…), il cui sforzo per tenerli a mente è largamente compensato dalle grandi emozioni che è in grado di suscitare. Il suo contributo nello Stabat di Poulenc è modesto, ma nei suoi pochi interventi ha avuto modo di esibire un velluto vocale di pregio, una voce piena, morbida, rotonda, che non “punge” in acuto e non “slarga” nel grave, di buon volume e accompagnata da una spiccata musicalità che più che di esecuzione fa parlare di vera e propria interpretazione (come dovrebbe essere sempre).

 Se il lettore si stupisce di non aver ancora visto lodare l’elevato standard (anche qua al solito) dell’Orchestra del Regio, continui a leggere: ché nella seconda parte del concerto essa emerge al meglio con la Sinfonia in re minore di César Franck. Si continua quindi all’insegna della musica francese, benché Franck fosse belga: e a dispetto della fama di formidabile organista, nell’unico lascito sinfonico della sua produzione dimostra di saper padroneggiare anche la scrittura orchestrale, fondendo un linguaggio personale a influssi della scuola neotedesca, soprattutto Liszt. Questa esterofilia, oltre all’originalità di un taglio in tre movimenti anziché nei consueti quattro – sebbene nel secondo condensi i canonici Adagio e Scherzo – non gli attirò le simpatie dei suoi connazionali, ancorati a un saldo campanilismo, quando venne eseguita per la prima volta nel febbraio del 1889. Ma tant’è: ad oggi la Sinfonia in re minore resta il lavoro più noto ed eseguito di Franck. E quando è eseguito da un’orchestra del genere, la si apprezza ancor di più. Dagli archi compatti, dal suono gonfio, pneumatico, ai legni morbidi e legati – che poesia il corno inglese di Alessandro Cammilli nell’Allegretto! –, senza tralasciare ottoni di grande espressività, specialmente i corni, e percussioni attentamente calibrate, tutto concorre a rendere l’esecuzione davvero memorabile.

 Simile qualità è posta alla guida di una mano salda, posata, quella di Conlon. Prevale in lui l’impronta della maestosità, a scapito di altre letture più impetuose, cosa che conferisce, specialmente all’Allegro non troppo d’apertura, un che di teatrale, di diegetico, senza che mai venga a calare la tensione narrativa, grazie anche a ritenuti e accelerati dosati con gusto e intelligenza: ciò si conferma anche nell’Allegretto centrale, di forma meno riducibile a schemi noti – come si diceva, lo sperimentalismo di Franck si spinge a fondere due movimenti in uno. Sostanzialmente corretto poi l’Allegro non troppo conclusivo, nel quale si sarebbe voluta tuttavia un’energia un poco più pulsante, tale da coalescere maggiormente il tessuto tematico, che, in un altro guizzo di originalità, richiama i temi ascoltati nei due movimenti precedenti in una forma ciclica di grande unità.

Recensione del 14 gennaio 2025