(Christian Speranza-Genova) Lucia stravince a Genova. Novembre. Mese perfetto per celebrare Donizetti, dato che ci casca il suo compleanno. Al Carlo Felice di Genova va in scena Lucia di Lammermoor, la sua opera più famosa, e saluta il pubblico genovese con l’ultima recita domenica 24/11/2024, di cui qui si dà conto. Lorenzo Mariani, che si avvale delle scene di Maurizio Balò e dei costumi di Silvia Aymonino, propone il collaudato allestimento del 2018, già visto presso il Comunale di Bologna e l’ABAO-OLBE di Bilbao. L’azione viene spostata dal Settecento all’Ottocento, fra l’elegante completo beige di Raimondo, molto british, la gonna alla scozzese di Lucia e il tartan di Enrico. La scena è un grande salone del castello di Lord Ashton, dai cui finestroni, in parte coperti da un tendaggio verde come le sedie, si affacciano le brume scozzesi e la ramaglia ischeletrita del parco, mosse ad arte dai video di Fabio Massimo Iaquone e Luca Attilii. E quando durante Regnava nel silenzio da quei vetri compare la fontana, per poi scomparire a fine aria, l’idea è che anche quella sia una rievocazione della mente di Lucia, la proiezione di un suo incubo, il presagio o l’avvisaglia della sua incipiente labilità . Un po’ più astratta l’ambientazione della torre di Wolferag, resa con una paratia cui vengono appese due corone floreali epitalamiche: siamo quindi nei pressi del castello di Enrico e Lucia, dove si sta consumando il banchetto nuziale. Le luci di Marco Filibeck contribuiscono validamente ad immergere l’opera in un clima opprimente, anche se gli interni ispirano a prima vista il calore da caminetto che sembra trasfondersi in calore umano.
 Ma qui di calore umano non v’è nemmeno traccia. Mariani, che nel posporre l’azione nel XIX secolo non solo avvicina l’opera all’anno di pubblicazione di The Bride of Lammermoor di Walter Scott (1819) e a quello di composizione dell’opera (maggio-luglio 1835) ma anche alla sensibilità ottocentesca che la permea, ha cura di caratterizzare fortemente i personaggi. Lucia appare forte, disinibita, fumando una sigaretta (in un’epoca in cui alla donna era proibito fumare in pubblico: il caso Sand docet) e cercando di resistere invano alle pressioni di fratello e precettore. Ma, se è pur vero che ciò contrasta con quanto si evince dalla musica, che per i suoi ingressi in scena prevede un lungo assolo di arpa al primo atto – la delicatezza fatta musica – e un dolente oboe al secondo (questo nell’edizione Ricordi qui impiegata, sostituito da un clarinetto nell’edizione critica dell’ultima Lucia scaligera), la violenza di Enrico, per contro, è molto ben esplicitata: in La pietade in suo favore decapita con un pugnale un cervo appena cacciato e deposto sul tavolo del salone; e il lungo duetto con Lucia al second’atto termina con un manrovescio che fa accasciare la sorella a terra, subito fermato da un Raimondo che, senza avere più nulla dei connotati sacerdotali, gli punta una pistola alla testa (peraltro di anacronistica foggia moderna). Peccato solo per i pegni d’amore, monili da collo anziché anelli. Di certo, l’intento di Mariani di dipingere la violenza sulla donna è stato raggiunto con successo.
 Musicalmente, la direzione di Francesco Ivan Ciampa, sul podio dell’Orchestra del Carlo Felice, imprime tempi corretti, sostenuti da una visione d’insieme coerente. Talvolta alcuni preziosismi strumentali sfuggono, travolti da un incalzo che porta l’orchestra a coprire le voci con una vigoria già riscontrata in altre sue direzioni; ma a questo cesello non troppo marcato risponde una Lucia praticamente completa, che vede la riapertura di molti tagli di tradizione, come l’aria di Raimondo, il duetto Enrico-Edgardo al terzo atto o il breve recitativo dopo la scena della pazzia, unico momento in cui a Enrico è dato mostrare un briciolo di umanità vedendo ciò che ha fatto. Scena della pazzia che, se da un lato opta per lo spettacolarismo della lunga cadenza di tradizione, non di Donizetti, dall’altra recupera l’accompagnamento originale con la glassarmonica (che lo stesso Donizetti non ascoltò mai: lo strumentista del San Carlo Domenico Pezzi venne licenziato prima della prima e il ripiego sul flauto fu d’obbligo).
 L’ottimo coro del Teatro, magistralmente istruito da Claudio Marino Moretti, purtroppo assente, e dai fluidi movimenti scenici (ottimo come si precipita attorno a Lucia che firma il contratto, con avida curiosità ), interloquisce con un cast molto ben amalgamato e scelto con cura. Nina Minasyan è una Lucia quanto mai espressiva, in grado di avventurarsi nel suo impervio pentagramma con slancio, sicurezza e assoluto dominio di agilità e colorature. Le leggerissime esitazioni sulle puntature di Quando rapita in estasi, dove per prudenza rinuncia ai sovracuti, non inficiano una prova che si mantiene di alto valore artistico per tutta la recita e che nella lunga cadenza della scena della pazzia, prevedibilmente in sottoveste bianca insozzata di sangue, raggiunge il culmine grazie a una voce limpida, cristallina e valente in tutti i registri. Edgardo è uno stupefacente Iván Ayón Rivas. Chi ha memoria, lo ricorderà come Duca di Mantova nel Rigoletto romano post-Covid, nel 2020. Ma di certo verrà ricordato anche qui come splendido interprete donizettiano, dotato di voce calda, squillante, dagli ottimi filati come dagli acuti stentorei. L’ottima mimica, di grande comunicatività , lo cala inoltre molto realisticamente nel personaggio, quel «Vi disperda» al second’atto è da pelle d’oca e Tombe degli avi miei offre un saggio di tecnica ed espressività impeccabile. Pregevole anche Franco Vassallo, autentico artista nel calarsi in un Enrico spietatissimo, in grado di sfoggiare mezzi vocali temprati, con acuti potenti, penetranti ed emessi senza difficoltà ; una voce scura e solida, con un legato e un declamato da manuale, lo porta alla piena resa dell’intento drammatico. Sugli scudi Luca Tittoto per un Raimondo superlativo; persa, come si diceva, l’auctoritas chiesastica, rispecchia nondimeno la grandezza d’animo del personaggio, mai perdendo di nobiltà anche quando, come s’è visto, la regia gli impone azioni poco consone al ruolo. Vocalmente dispiega uno strumento ampio, risonante e cavernoso, che piega ad attenta teatralità con non comune intelligenza artistica.
 Lievi incertezze a inizio recita per Manuel Pierattelli, cui segue una prestazione di tutto rispetto nel delineare un Normanno adeguatamente insinuante, in forza di una voce garbata e luminosa, di stampo rossiniano. Di maggior spessore quella di Paolo Antognetti, solida e svettante, che risolve bene il ruolo di Arturo. Bene infine anche per l’Alisa di Alena Sautier, vocalmente molto valida. Applausi entusiasti per tutti.