(Christian Speranza- Piacenza) Nel segno della Callas. Alle orecchie del pubblico italiano, abituato al facile melodizzare di Verdi, Puccini e Donizetti, l’estetica vocale della tragédie lyrique può lasciare interdetti: un’estetica basata sul declamato espressivo, dove le “arie” vere e proprie sono poche e inglobate nel fluire dell’opera. La vestale di Gaspare Spontini è uno dei massimi esponenti di questo genere primoottocentesco: un genere di passaggio, prettamente francese, che, integrato più tardi col belcanto italiano, sfocerà nel grand opéra.

                Al suo varo (Parigi, Opéra, 1807), il capolavoro di Spontini e de Jouy (Parigi, Opéra, 1807) ebbe più di duecento repliche, per poi uscire dal repertorio. In tempi moderni, venne ripreso nel 1954 da Luchino Visconti nello storico allestimento scaligero diretto da Antonino Votto e con una Callas ai vertici della popolarità. Ed è proprio a quell’allestimento che si rifà Gianluca Falaschi nel metterlo in scena in una produzione che coinvolge la Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi, il Teatro Municipale di Piacenza, il Verdi di Pisa e l’Alighieri di Ravenna.

  Falaschi, che firma regia, scene e costumi assieme a Mattia Palma e Giuditta Verderio, trae spunto da Visconti nel mantenere per la protagonista l’abito di velluto scuro ad ampi panneggi, l’alto chignon e il triplo giro di perle al collo, insomma il design ideato all’epoca da Piero Zuffi, ma sovrascrive alla sua vicenda la vita di Maria Callas, trovando analogie fra la giovane vestale romana e la vita privata della diva.

 Modernamente potremmo parlare di pressioni sociali: quelle su Julia, costretta per prestigio familiare a diventare sacerdotessa e a rinunciare all’amore, e quelle sulla Callas, di cui viene fatto ascoltare a inizio recita un frammento parlato.

 Un parallelismo interessante, anche se non privo di rischi. La trasposizione temporale contemporanea, è ciò che disturba meno. All’aprirsi del sipario Licinio, in smoking e papillon slacciato, barcolla ubriaco bottiglia alla mano, appartandosi durante una festa altolocata per rivelare a Cinna il suo amore per Julia. E se di parallelo con la Callas vogliamo parlare, i capelli all’indietro di Licinio dovrebbero alludere a quelli analoghi di Onassis: che mai avremmo visto ebbro fuori da una festa; e che dire delle toghe bianche poste goffamente sopra gli smoking? Delle due l’una: o siamo al present day, o siamo nell’antica Roma: tertium non datur. La scena, che rimarrà tale lungo i tre atti dell’opera, è un salone spoglio, quasi asettico, riquadrato da lesene marmoree e basse gradinate in marmo bianco, circondato da un leggero tendaggio, bianco anch’esso, che cadrà al secondo atto, facendo piombare la scena in penombra grazie all’illuminotecnica di Emanuele Agliati, quando viene a spegnersi il sacro fuoco di Vesta. Scandalo e condanna a morte di Julia, salvo riaccensione miracolosa al terzo atto – luci di nuovo su – e lieto fine.

 

 

Nel complesso gli spunti ci sono, ma la loro realizzazione non decolla appieno. Anche l’idea di utilizzare l’abito “alla Visconti” per simboleggiare il ruolo ufficiale di sacerdotessa – e, per trasposto, della Callas – non è male: da questo abito, la Grande Vestale non si separerà mai, restando pienamente inquadrata nel “tipo”; Julia invece apparirà in sottoveste, prima nera e poi bianca, come per mettere “a nudo” la sua fragilità: ma perché sottolineare il suo disagio, oltre che con proiezioni video in cui lei si lascia annegare (?) in una vasca, col rossetto passato sul collo a mo’ di taglio della gola? E perché, mentre è inginocchiata al centro della scena, i danzatori le scagliano addosso delle rose rosse? Perché infiorare con corolle le tempie dei mimi?

Interrogativi che si moltiplicano con i due lunghi balletti al termine del primo e terzo atto, coreografati da Luca Silvestrini e a tratti davvero incomprensibili, soprattutto quelli epitalamici a fine opera, quando diventano fini a se stessi. Probabilmente accadeva così anche ai tempi di Spontini: un’occasione squisitamente euterpico-tersicorea, buona anche per rifarsi gli occhi su qualche ballerina…

 Forse a causa di questi balletti interlocutori e di una musica, si diceva, non così consueta, la recita di venerdì 22 novembre 2024 al Municipale di Piacenza è stata piuttosto contestata, per lo meno alla fine del primo atto, dopo il quale si sono registrate alcune defezioni. Ma, se regia e balletti hanno effettivamente lasciato interdetto pubblico e scrivente, il côté musicale registra esiti non così negativi. Alla testa dell’Orchestra La Corelli, Alessandro Benigni concerta con buona routine, bilanciando le masse sonore a favore del palcoscenico, con guizzi trascinanti nel finale del secondo atto e non solo; il Coro del Municipale, istruito da Corrado Casati, si conferma come in altre occasioni all’altezza del compito, compatto e amalgamato comme il faut.

Si difende bene anche il cast vocale. Carmela Remigio ha abituato il suo pubblico a una nobiltà e purezza di canto che qui si conferma nel rôle-titre, assieme alla consueta capacità di scolpire la parola; ma il volume, assottigliatosi nel tempo, ha come stilizzato questa purezza, sottraendole potenza per conferirle qui le caratteristiche del personaggio giovane, liliale. Va da sé che le parti meglio riuscite siano state quelle più liriche, a sfavore di quelle più sfogate: prova ne sia tutta la seconda parte di Toi, que j’implore avec effroi (Tu che invoco con orrore, l’aria più celebre, al secondo atto), dove la sua voce, pur nella tragicità del testo, appare come distaccata, lasciando all’orchestra il grosso del portato drammatico. La controparte è sostenuta dalla Grande Vestale di Daniela Pini, voce più corposa e scura, di bellezza interpretativa convincente, sempre compassata nella sua inscalfibile auctoritas.

 Licinio è Bruno Taddia, baritenore, ovvero baritono con caratteristiche tenorili, che, se nel primo atto appare poco smaltato e un po’ uniforme nell’interpretazione, si riabilita completamente nei due atti successivi, dove si mette in luce con voce chiaroscurata, attenta resa testuale e partecipata attorialità. Bene anche per il Cinna di Joseph Dahdah, tenore di buon squillo e disinvolta presenza scenica. Completano il cast infine Adriano Gramigni (il Sommo Sacerdote), basso poderoso e ben calato nella parte, e Massimo Pagano, impegnato nel doppio ruolo del Capo degli Aruspici e di Un Console.

E nonostante il poco lusinghiero accoglimento del primo atto, secondo e terzo sono stati salutati dal pubblico del Municipale con un ritrovato trasporto che ha sicuramente scaldato il cuore delle maestranze coinvolte.

 

Recensione del 22/11/2024