(Christian Speranza) Con Gustav Mahler (e con Strauss, suo grande amico, cui abbiamo già accennato), scavalliamo il Novecento e approdiamo a una nuova concezione sinfonica. Anche per Mahler, come per Beethoven, ogni sinfonia deve essere “unica”, con un significato preciso. Il che, combinato con l’idea che una sinfonia deve essere come il mondo, «deve contenere tutto», equivale a creare ogni volta un nuovo universo sonoro. Il concetto “classico” di Sinfonia è ormai qui molto distante. La sinfonia è diventata, da Beethoven a Bruckner, un modo per esprimere se stessi. E con Mahler si vanno a esplorare territori finora confinati nell’inconscio. Entra in gioco Freud e la psicologia (Freud psicanalizzò un Mahler in crisi con la moglie…). Delle nove Sinfonie complete che lasciò, soltanto una, la Sesta, la “Tragica”, segue lo schema codificato da Haydn, benché con un Finale che da solo dura più di mezz’ora. Per il resto, ciascuna ha la sua particolarità, financo la sua bizzarria.
La Prima è sì in quattro movimenti, ma il loro contenuto è del tutto anomalo (c’è pure Fra’ Martino in minore…). La Seconda, la “Resurrezione”, è in cinque movimenti e mette in scena niente meno che il giudizio universale, ricorrendo a un’orchestra enorme, campane, organo, due soliste e coro. La Terza, in sei movimenti, è una descrizione del creato, dalla natura inanimata a un sentimento panico di amore universale (“Dio”: ma la spiritualità mahleriana è più sfaccettata), in cui un soprano e un contralto solisti, più un coro femminile e uno di voci bianche, cantano su testi di Nietzsche e del Corno magico del fanciullo, raccolta di poesie popolari tedesche. La Quarta torna a quattro movimenti, a un’orchestra un po’ più piccola, e chiede un soprano nel Finale, che canta una visione infantile del Paradiso con gli angeli che infornano il pane – ancora, e per l’ultima volta, un testo del Corno magico.
La Quinta, in cinque movimenti, contiene il famosissimo Adagietto, dichiarazione d’amore per la moglie Alma, usato anche da Visconti per Morte a Venezia. Compaiono originali sperimentazioni timbriche: nella Sesta, i campanacci da mucca evocano le altezze alpine, e un grosso martello di legno i colpi del destino. Nella Settima, di nuovo in cinque movimenti, lascia da parte il martello, ma riprende campane e campanacci e aggiunge un corno baritono e un mandolino. L’Ottava, in due soli movimenti, è più una cantata sinfonica che una Sinfonia, e mette in bocca a otto solisti, doppio coro e voci bianche, l’inno latino Veni, creator spiritus e la scena finale del Faust di Goethe. Due testi diversissimi esplosi in una composizione che, alla prima di Monaco, nel 1910, coinvolse circa mille esecutori! È infatti nota come “Sinfonia dei mille”.
Si appassiona poi a poesie cinesi appena tradotte in tedesco, e compone Il canto della terra, sorta di Sinfonia in sei movimenti, tutti cantati da due solisti. In questo modo, non avendo chiamato Il canto della terra “Sinfonia nº9”, quando mise mano alla “vera” Nona Sinfonia, credette di aver gabbato il destino, avendo evitato la “maledizione della Nona”, una diceria secondo cui, da Beethoven in poi, chi avesse voluto scrivere più di nove Sinfonie, sarebbe morto. Beethoven fu il primo. Schubert il secondo. Bruckner il terzo, Dvořák il quarto. La Nona, in quattro movimenti ormai distantissimi dal modello haydniano, riuscì a finirla. La Decima, che di fatto sarebbe stata la sua Undicesima, forse in cinque movimenti, la lasciò incompiuta…
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