A inizio Ottocento, l’emanciparsi della figura del compositore come artista indipendente, e non più come semplice “impiegato di corte”, fece sì che anche la ricezione della sua musica cambiasse.
In questo, il campione fu Beethoven. Con le sue note, l’artista deve portare un messaggio, secondo lui. Dalle cinquantotto Sinfonie di Stamitz, dalle quarantuno “ufficiali” di Mozart, dalle centoquattro di Haydn, si passa alle sue nove. Il numero minore è compensato da una profondità e un’originalità di linguaggio quale non si era mai vista prima. Come Verdi in campo operistico non smise mai di sperimentare nuove soluzioni, così fece Beethoven in campo sinfonico. È per questo che le sue Sinfonie sono viste ancora oggi come paradigmi irrinunciabili del genere. A Beethoven si deve la sostituzione del Minuetto con lo Scherzo, sorta di minuetto più veloce e più energico.
Col capolavoro conclusivo, la celeberrima Nona (1824), Beethoven introdusse tre caratteristiche che rivoluzionarono il genere. Anzi tutto, dilatò la forma ben oltre i limiti dell’epoca, toccando l’ora di durata. Solo la sua Terza, vent’anni prima, l’”Eroica”, aveva sfiorato una complessità simile. In secondo luogo, capovolse la priorità dei movimenti: mentre il Finale era stato finora il capitolo più leggero dei quattro, Beethoven fece sì che esso fosse il fine verso cui tutta la Sinfonia tendeva: divenne quindi il Finale più lungo e articolato mai scritto fino a quel momento. In terzo luogo, in un genere che per secoli era stato puramente strumentale, chiamò in causa la voce umana, quattro solisti e coro, a intonare la famosissima Ode alla gioia di Schiller.
Da Beethoven in poi, la sinfonia divenne la forma esclusiva per esprimere concetti “alti”, per veicolare messaggi importanti, non più quel genere di consumo, da passatempo per aristocratici, che era stato per decenni. E per molto tempo Beethoven venne visto come un mostro sacro impossibile da battere sul suo stesso terreno. Bisognava cercare altre strade…
Schubert lo capì subito. Morì poco più che trentenne, appena un anno dopo Beethoven, nel 1828. Dopo alcuni tentativi giovanili di imitare Mozart, dopo aver “giocato a fare Beethoven” con la Quarta, iniziò a imboccare un sentiero diverso con l’Ottava, la famosa “Incompiuta”, e con la Nona, detta “la Grande”. La morte gli impedì di proseguire i suoi esperimenti; né per molto tempo nessuno si accorse di questi suoi lavori, che sembrarono perduti…
Nel frattempo, il Romanticismo aveva aperto nuove strade. Schumann lasciò quattro Sinfonie, Mendelssohn arrivò a cinque, nelle quali, da un lato ritentò l’esperimento beethoveniano di includere le voci (ne venne fuori la Seconda, con solisti e coro a cantare brani della Bibbia), dall’altro introdusse suggestioni derivate da viaggi ed esperienze, come nella Terza, la “Scozzese” e nella Quarta, l’”Italiana” (vedi link).
Peraltro, fu grazie a loro due che la “Grande” di Schubert venne riesumata: Schumann la trovò quasi per caso, sepolte sotto mucchi di fogli accatastati a casa del fratello del defunto, Ferdinand, nel 1839, e l’anno dopo Mendelssohn si incaricò di dirigerla a Lipsia.
Questo aprirsi a suggestioni naturali, ma anche a suggestioni letterarie, diede origine, nel secondo Ottocento, a sinfonie dichiaratamente ispirate a soggetti precisi. Nasceva la “musica a programma”. La “Sinfonia Faust” e la “Sinfonia Dante” di Liszt sono tentativi di raffigurare i personaggi di Goethe e l’ascesa lungo i regni ultraterreni. La sinfonia si apre a contaminazioni letterarie, naturali, filosofiche. Nascono i generi del Poema sinfonico e della Fantasia sinfonica, in un unico movimento. Ecco il Tasso, lamento e trionfo di Liszt, il Romeo e Giulietta e la Francesca da Rimini di Čajkovskij, il Così parlò Zarathustra, il Don Chisciotte, la Sinfonia delle Alpi e Aus Italien di Strauss (vedi link)… e molti altri…
Vi fu però anche chi tentò di nuovo di percorrere ancora la strada della sinfonia “vecchio stile”. Johannes Brahms ci mise più vent’anni a comporre la sua Prima: ma quando venne presentata, nel 1876, venne salutata come “la Decima di Beethoven”. Il filo con la tradizione classica era stato riallacciato, ma a prezzo di enormi sforzi e ovviamente con ulteriori novità: «Non si ha idea di cosa voglia dire sentire sempre dietro di sé i passi di un gigante come Beethoven», lasciò detto. Passata la paura, però, la Seconda gli venne quasi di getto, così pure (quasi) la Terza. Per la Quarta ci vollero due anni di lavoro. Ma ne venne fuori una delle più granitiche costruzioni di sempre.
Negli stessi anni in cui Brahms, osannato dalla critica, componeva le sue quattro Sinfonie, ovvero gli anni Settanta-Ottanta dell’Ottocento, un altro musicista, ben più osteggiato e incompreso, ripensava l’ultimo Beethoven e l’ultimo Schubert, combinandoli con influssi wagneriani in una prospettiva unica e mai più ritentata: Anton Bruckner (vedi link). Nelle sue Sinfonie, Bruckner ripropone i tratti della Nona di Beethoven, voci escluse (dilatazione della durata, Finale come punto di arrivo di un discorso), insieme con la complessità della forma di Schubert e con il nuovo linguaggio di Wagner. L’anno cruciale fu il 1865, quando venne diretta l’”Incompiuta” di Schubert, riscoperta appena pochi anni prima, e venne eseguito per la prima volta il Tristan und Isolde (vedi link).
I suoi «giganteschi pitoni sinfonici», come li definì Brahms, non vennero apprezzati per molti anni, se non verso la fine della sua vita (vedi). Ma già si profilava l’universo sonoro del suo allievo più famoso: Gustav Mahler…
Leggi a seguire la parte 1