(Christian Speranza-Torino) Da quel 6 maggio 1994 in cui Claudio Abbado diresse la Nona di Mahler coi Berliner Philarmoniker, la stagione di Lingotto Musica si è sempre distinta per aver ospitato artisti d’élite. Alle soglie dei trent’anni non si è smentita, impaginando per il 2024/25 sette concerti uno meglio dell’altro. Otto, con quello d’apertura. L’auditorium Giovanni Agnelli, elegante progetto di Renzo Piano nell’ex cuore pulsante dell’industria automobilistica torinese, ha riaperto i battenti venerdì 18 ottobre 2024 per l’inaugurazione di stagione, incentrata su un programma tutto russo.
Russo. Almeno in questo caso, l’arte non conosce né guerra, né confini… Li ha conosciuti eccome, però. Famoso è il caso di Šostakovič e dei suoi… come dire… dissapori con Stalin. Ma ben prima di lui, anche Sergej Rachmaninov si misurò coi tragici risvolti della storia, conoscendo i travagli della prima guerra mondiale (e in parte della seconda). Il 23 dicembre del 1917, a ridosso della rivoluzione d’ottobre, i Rachmaninov partirono per gli Stati Uniti d’America per non tornare più in patria. A quel tempo, gli USA erano una meta già conosciuta per Rachmaninov: anni prima vi aveva intrapreso infatti una tournée di concerti, presentando anche quello che all’epoca era l’ultimo nato, il Concerto per pianoforte e orchestra nº3 in re minore Op.30, che ebbe il suo battesimo il 28/11/1909 a New York con Walter Damrosch sul podio. Il 16/01/1910 lo eseguì per la seconda volta sotto la direzione di un certo Gustav Mahler…
Il Concerto assunse presto un’aura leggendaria per la sua impressionante difficoltà tecnica, corroborata nell’era del cinema da Shine, in cui un già instabile David Helfgott impazzisce imparandolo a memoria. Film peraltro contestato dal padre di David, per la luce negativa che getta sul figlio. E d’altronde, se ogni pianista che impara il “Rach 3” dovesse impazzire, staremmo freschi. C’è addirittura chi ne ha fatto un cavallo di battaglia. Yefim Bronfman, ad esempio, lo ha in repertorio da decenni. Lo presentò sempre qui, all’Agnelli di Torino, esattamente vent’anni fa, nel 2004: e di nuovo torna a stupire nel primo dei Concerti del Lingotto per potenza di suono, padronanza del pezzo, tecnica strabiliante e grande espressività. Pur nelle ardite tempeste sonore che il pianoforte è tenuto a suscitare, l’interpretazione di Bronfman si orienta a una notevole sobrietà di linguaggio, sottolineata da un uso parco del pedale di risonanza, cosa che terge il suono da debordanti aure tardoromantiche – pur molto presenti nella scrittura del Nostro; ne accentua l’uso soltanto verso la fine, per coronare la conclusione. Ma questo non è che uno dei riflessi che la lunga confidenza con la partitura (lo ha suonato a diciott’anni nel 1976…) ha fatto maturare nella sua lettura. Vi sono scelte interpretative che traspaiono pesate con grande intelligenza espressiva: un’esecuzione sì forse un tantino cerebrale, ma non fredda, non senza slancio, piuttosto sublimata dai turgori di altre più balde, più giovanili, più muscolose, vorrei dire più “orientali”, e chi ha orecchie per intendere… E allora, via a un inizio dimesso, raccolto, nudo, poi a una mobilità liquida nelle incessanti e turbinose quartine di semicrome, come inglobate nel tessuto sinfonico del concerto, a passaggi accordali nitidi e potenti, fino al cacumine della cadenza “ossia”, quella alternativa, più impervia, pensata per i pianisti più agguerriti, qui eseguita in modo tecnicamente inappuntabile e sempre senza esagitazioni; e via poi a sonorità nivee e traslucide quando il flauto riprende a suonare sotto gli arpeggi del pianoforte, come a sonorità incandescenti nell’Intermezzo, a ribattuti rapidissimi e precisi, a una sezione centrale mossa di grande coinvolgimento, fusa con una cantabilità “calda”, decadente, dell’orchestra, fino alle autentiche scosse elettriche del Finale, nervosissimo e scattante fin quando il ricordo dei temi dell’Allegro ma non tanto iniziale non lo viene ad addolcire, prima del colpo di coda che conclude all’insegna dei fuochi d’artificio, dalla tastiera come dall’orchestra, e a un boato di applausi che giustamente ne decretano il trionfo – applausi che, nonostante richiamino sul palco più volte Mr. Fortissimo, come lo chiamò Philipp Roth in La macchia umana, non lo convincono a concedere alcun bis: comprensibile, dopo quaranta minuti di virtuosismo estremo…
Parlando di orchestra, ad accompagnare Bronfman è stata la amburghese NDR Elbphilarmonie Orchester, dalle rive dell’Elba per la prima volta ospite al Lingotto. Fondata nel 1945, si è presto imposta quale compagine cardine nella rinascita musicale nel dopoguerra tedesco, forte di direzioni autorevoli come quella di Günther Wand e Christoph Eschenbach. Ascoltandola dal vivo, è possibile capire il perché di tanto credito. Sezioni dalla nettezza di suono impressionante, archi che pare che respirino, una massa di suono compatta, uniforme e fluida, legni penetranti ed espressivi, ottoni che sanno amalgamarsi nei tutti orchestrali senza “bucare” o prevaricare, come si sente spesso. Particolarmente apprezzati, almeno dallo scrivente, l’omogeneità e la chiarità del quartetto di corni – e pace per le trascurabili sbavature a fine serata – e la morbidezza dell’impasto timbrico dei legni, per non parlare delle numerose fioriture, dei “riccioli” che sono tenuti a intessere attorno ai temi principali del primo movimento della Quarta Sinfonia di Čajkovskij.
Perché è la Sinfonia nº4 in fa minore Op.36 di Čajkovskij ad essere stata eseguita nella seconda parte del concerto. Con Čajkovskij il discorso delle Sinfonie si suole dividere nettamente fra le prime tre e le seconde tre. La Quarta (1877) apre la seconda triade con una spontaneità e una sincerità che le precedenti possono solo sognarsi. Accade quando il dramma della vita si fa musica, cosa che con Čajkovskij accade assai spesso. Costretto a prender moglie per mascherare la sua omosessualità, la scelta ricadde su Antonina Miljukova, sua ex-allieva: il matrimonio di copertura fu un disastro, aggravato dalle turbe psichiche di lei. Čajkovskij si rifugiò allora nel rapporto particolarissimo con Nadežda von Meck, la cui natura esclusivamente epistolare (si incontrarono una sola volta nell’arco di anni, e non senza imbarazzo) andò ben oltre quella di una munifica mecenate e del suo protetto, sovvenzionato affinché componesse in pace: si trattò di uno scambio di confidenze unico, che, se non sfociò nel dichiarato amore di Brahms per Clara Schumann, pure ci restituisce molti lati nascosti della personalità del compositore. È da una di queste lettere che apprendiamo, ad esempio, dell’intento programmatico della Quarta, pensata come una celebrazione quasi masochistica del “fato” (e d’altronde Čajkovskij aveva scritto pochi anni prima un poema sinfonico intitolato proprio Fatum), che risuona nella fanfara che apre la Sinfonia e che, nel tripudio del Finale, dove sembra ormai dimenticata nel fragore di una festa popolare, torna a farsi udire, come il corno di Silva al matrimonio di Ernani. La Sinfonia termina all’insegna di una felicità bombastica, gridata, urlata, un’orgia di suoni, un clangore di piatti: ma lo spettro del fato rimane, simboleggiando che quella conclusione positiva è mera apparenza. Da brividi…
Così come da brividi è l’esecuzione che propone il newyorkese Alan Gilbert alla testa della “sua” orchestra: “sua” dal 2019 e se tutto va bene fino al 2029. Direttore che non si sente molto in Italia: la Scala ha aspettato a chiamarlo fino al 2016, quando ha diretto Porgy and Bess di Gershwin, seguita nel 2019 da Die tote Stadt di Korngold; ma che, con un Grammy Award nel 2012 e con collaborazioni stabili con i Berliner, la Gewandhausorchester di Lipsia, la London Symphony e altre, gode di un prestigio indiscusso fuori dal Belpaese.
Ciò che salta all’occhio, anzi, all’orecchio, è che le sue interpretazioni non sono scontate. Le avvisaglie c’erano già state durante il Concerto di Rachmaninov, in cui l’orchestra era ombreggiata cupamente nel primo movimento, con una schiarita progressiva verso la fine; un insolito rilievo dato ai corni ha gettato una luce inedita, del tutto personale, sulla strumentazione; all’acme della tensione, il pianoforte è stato conglobato in un caos fonico voluto, atto a dare l’idea di un collasso generale, rinunciando a far svettare la perorazione delle trombe – normalmente la scelta più inflazionata; un Intermezzo dallo scarto mobilissimo nei suoi repentini cambi di umore, conduce fino a un deciso colpo di grancassa che impone di voltar pagina e passare a un Finale esaltante, vispo, nervoso e tagliente, un dialogo serratissimo al cardiopalmo poco prima di un deflagrare tripudiante, su un accelerato evidentissimo e ben fatto, che ha concluso il Concerto: e non è che procedere per spunti.
Con Čajkovskij i meriti di Gilbert si son fatti ancor più evidenti. Dopo la fanfara d’apertura, in cui i corni si riconfermano punte d’eccellenza, il Moderato con anima è trattato come un racconto che si sbozzoli dolorosamente, man mano sempre più drammatico, punteggiato dalle lumeggiature dei legni già ricordati, fino all’accesa passionalità dello sviluppo e dell’ancor più drammatica conclusione, con quel tentennare di legni e archi impiccati sul registro acuto prima di rovinare nella chiusa. Da lacrime agli occhi il primo oboe nell’Andantino che segue, una nenia intima, malinconica, fraseggiata con amore, poi ripresa da archi e corni e infine dal fagotto: tutti sugli scudi. Lo Scherzo procede su un pizzicato d’archi di notevole spessore, corposo e dalle dinamiche ben differenziate. Nel Trio si distinguono le volatine agili e leggere dei legni – plauso particolare per l’ottavino. Segue un Finale, come anticipato, febbrile, acceso ma non precipitato, sempre (e)seguito con cura di dettagli e con un occhio di riguardo all’articolazione melodica lungo un crescendo emozionale efficacissimo per far emergere a sorpresa, dopo una corsa a rotta di collo, la ricapitolazione della fanfara del fato, che irrompe col bivalente scopo di creare una forma ciclica e di frenare gli entusiasmi: entusiasmi che, lasciata svaporare coi dovuti tempi la nube nera dei minacciosi ottoni – come risuona meravigliosamente brunita la tuba ai bassi! –, travolge la platea in una conclusione reboante, da tappi di champagne che saltano, che contagia il pubblico in un applauso convinto e prolungato.