(Christian Speranza- Torino) Un palcoscenico decorato a fiori e un parterre gremito hanno accolto festosamente l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai (OSN) per il concerto d’apertura della stagione. Trasmesso anche in diretta su Rai 5, Rai Play e Rai Radio 3, il primo appuntamento del nuovo ciclo, giovedì 17 ottobre 2024, ha registrato un ampio consenso tra chi era presente all’auditorium Arturo Toscanini di Torino, per quanto non unanime.

Protagonista, come già al primo concerto della stagione passata, Ludwig van Beethoven. Che, se all’inaugurazione scorsa si divideva il programma con Čajkovskij, stavolta si aggiudica l’intera serata. Nella prima parte è stato eseguito il Concerto per violino e orchestra in re maggiore Op.61, del 1806, unico lascito nel genere da parte del maestro di Bonn, ma già bastante a dar prova di una vena lirica intensa e a tratti nostalgica, in contrasto con le altre sue composizioni del primo decennio dell’Ottocento, volte maggiormente a un’estetica dei contrasti, talora violenti. Proprio per questo virtuosismo non appariscente il Concerto non venne gradito dal dedicatario e primo interprete, Franz Clement; cadde presto nel dimenticatoio e fu riscoperto una quarantina d’anni dopo da Mendelssohn. Contrasti invece presenti e accesissimi nel caso del secondo lavoro in programma, la Sinfonia nº3 in mi bemolle maggiore Op.55, detta “Eroica”. Scritta fra il 1802 e il 1804, avrebbe dovuto intitolarsi “Bonaparte” e dedicata, nelle intenzioni originarie, al grande condottiero francese. Quando però questi, deludendo le aspettative di Beethoven, si autoproclamò imperatore, la dedica cambiò, diventando «al sovvenire di un grand’uomo». Quale che fosse, nessuno l’ha mai scoperto. Forse un vagheggiato salvator della patria, forse Beethoven stesso. Il quale, in questa che all’epoca detenne il record di Sinfonia più lunga e impegnativa mai scritta, rivelò orizzonti di sviluppo e complessità che superò soltanto con la Nona vent’anni più tardi.

 

 

A dar vita a questi due capolavori sono stati Andrés Orozco-Estrada, chiamato a fare gli onori di casa quale direttore principale dell’OSN, che quest’anno festeggia i trent’anni di attività, e il violinista Nikolaj Szeps-Znaider. L’introduzione dell’Allegro ma non troppo del Concerto si dipana lungo dinamiche e agogiche piuttosto convenzionali, atte a far risaltare la cantabilità dei temi. Ma è con l’ingresso del solista che la magia prende vita, in un fondersi armonioso di timbri che sembra fare della dolcezza e dell’amabilità la sua cifra distintiva. Più che accentuare i passaggi più accesi, Orozco-Estrada preferisce lenire vieppiù quelli più morbidi. Ne consegue, specie verso la fine del primo movimento e lungo tutto il Larghetto che segue, un clima Biedermeier, una sonorità diffusamente cameristica che in parte rischia di perdere di tensione nell’allentare troppo la tenuta complessiva. Impressioni riscattate in parte dal Rondò conclusivo, vispo e saltellante ma con garbo, un poco più rapido rispetto alle media delle incisioni. In questo finale si coglie qua e là qualche guizzo interpretativo in più, come il dialogo tra solista e primo fagotto, Francesco Giussani, reso con uno spleen che guarda già avanti. A rendere davvero l’esecuzione interessante è la qualità del suono dell’OSN, al solito smagliante e preciso, e il violino di Szeps-Snaider, che coniuga la morbidezza della lettura voluta da Orozco-Estrada con un virtuosismo delicato e mai prevaricante, in perfetto equilibrio con l’orchestra e con un’eleganza d’interprete che non viene mai meno, forse debitrice del fatto che, oltre che violinista, il poliedrico danese è anche direttore d’orches.

Al termine del Concerto, il fuori programma arriva tanto atteso quanto inaspettato: il Liebeslied di Fritz Kreisler, accompagnato dall’OSN.

 

 

                Molto meno convincente, invece, l’”Eroica”. Se il Concerto ha rischiato di perdere di mordente a causa della condotta talvolta troppo lassa, la Sinfonia soffre del difetto opposto: una corrività inusitata, davvero eccessiva, un affanno lungo tutta l’esecuzione che ha impedito di apprezzare appieno sia le molteplici particolarità di questa partitura, sia la bellezza della musica in sé. È pur vero che Beethoven, dopo l’invenzione del metronomo, appose velocità molto sostenute alle sue composizioni. Ma se l’agogica qui adottata può ricordare i tempi di Roger Norrington, il risultato espressivo è ben diverso. Di “eroico” qui c’è solo la saldezza dell’OSN, che riesce a star dietro a questa corsa indiavolata. Molto del fraseggio e molte delle articolazioni dell’Allegro con brio d’apertura si perdono, ad esempio, travolte da questa velocità che appiana tutto, e all’acme dello sviluppo, i ripetuti accordi dissonanti, più che risultare drammatici, suonano cacofonici. E valga anche per il resto della Sinfonia: non è la velocità il difetto peggiore: è la mancanza di scavo di lettura, di articolazione delle frasi melodiche, di respiro. Trombe e timpani fuori controllo, poi, imperano sul resto dell’orchestra, talvolta coprendone il suono. Non va molto meglio col secondo movimento, la Marcia funebre, marcata Adagio assai e che di Adagio ha ben poco (altra particolarità: nessuno prima di Beethoven aveva pensato a una marcia funebre in una sinfonia. E per chi, poi?). Il momento meditativo della Sinfonia si perde; si salva la sezione in fugato, dalle entrate sufficientemente ben evidenziate, e la sezione in maggiore, bella sfolgorante, a fronte di bordate dei timpani piuttosto fuori luogo. La conclusione, che dovrebbe sfumare, frammentando il tema come le ultime parole di un morente, perde di poesia, così affastellata. Il meglio diretto appare il terzo movimento, lo Scherzo, Allegro vivace, data la carica di vitalismo che le è propria e che si sposa bene con la lettura in esame. Archi e legni sugli scudi per precisione esecutiva, per non parlare della terna di corni nel Trio, netti e lampanti. Il Finale, Allegro molto, torna a cavalcare i pentagrammi al galoppo. Il movimento, una doppia serie di variazioni su due temi particolarmente cari a Beethoven, che utilizza in altre due occasioni, costruito con una saldezza e un’arditezza sbalorditive, depotenzia così la sua carica diluendosi in una precipitosa fiumana di note che cerca di arrivare alla fine il prima possibile.

Foto Sergio Bertani