(Christian Speranza- Torino) Quando apriamo un programma di sala e leggiamo cosa l’orchestra sta per eseguire, i due generi più frequentati sono la sinfonia e il concerto. Basti vedere ciò che suonerà l’Orchestra Sinfonica della Rai nel primo appuntamento della stagione 2024/25, il prossimo 17 ottobre: il Concerto per violino e orchestra Op.61 e la Sinfonia n°3 Op.55, entrambe di Beethoven.
A farla spiccia, la differenza maggiore è che nel Concerto vi è la contrapposizione, oppure il dialogo, tra un solista e l’orchestra. In questo caso, il violinista sarà la star e l’orchestra interverrà contro o a favore. Nel caso della Sinfonia, è tutta l’orchestra a prender parte al dialogo musicale, a volte con l’insieme degli strumenti, a volte selezionandone alcuni – solo gli archi, solo i legni, solo gli ottoni, oppure una loro combinazione, così da ottenere questa o quella sonorità particolare che in gergo tecnico è detta timbro. Ad esempio, è grazie alla combinazione di oboe, clarinetto e fagotto che Verdi, all’inizio del Preludio del Macbeth, ottiene quella sonorità che ricorda il timbro di una cornamusa: quel che ci vuole per introdurre una storia di crimini e streghe e crimini nella brumosa Scozia medievale…
Questo per quanto riguarda gli strumenti coinvolti. Ma la musica non è una scienza esatta, e il termine Sinfonia è passato, nel corso del tempo, a indicare generi diversi, prima di attestarsi su un significato più o meno univoco. Dal greco, la sym-phōnía indicava soltanto la consonanza di due o più note che “stessero bene assieme”, concetto già teorizzato da Aristotele. Che queste due o più note potessero essere eseguite da due o più strumenti(sti), è conquista posteriore, e ha fatto sì che si potesse parlare di “brano suonato da più strumenti”. Il primo uso del termine con questa accezione è del XV secolo.
Ciò che nel Seicento era chiamato Sinfonia era essenzialmente l’introduzione strumentale a un’opera, genere che appunto nasce in questo periodo. Col tempo, parlare di Sinfonia con questo significato è volersi riferire a un brano di ampie proporzioni, contrapposta al Preludio, più breve. Ne sono esempi le Sinfonie delle opere di Rossini e, più rare, di Donizetti e Verdi. Nel Settecento, Bach recupera il significato di “note che stanno bene assieme” per intitolare alcuni suoi pezzi per tastiera: le Invenzioni e Sinfonie BWV 772-801.
Dal modello delle Sinfonie da opere di Jean-Baptiste Lully (1632-1687) e Alessandro Scarlatti (1660-1725), suddivise in più episodi lenti e veloci, nacque un nuovo tipo di composizione: la Sinfonia come genere a se stante, da ascoltare indipendentemente da un’opera. Mentre Lully scelse il modello a episodi lento-veloce-lento, che dette origine alla cosiddetta “ouverture alla francese”, Scarlatti introdusse la scansione veloce-lento-veloce. E quando si trattò di adattare questa forma a un genere autonomo, fu principalmente Vivaldi che la fermò in un modello che fu sfruttato per secoli: il concerto solistico “tagliato”, come si dice, in tre.
Anche la sinfonia adottò lo stesso schema in tre “momenti”, veloce-lento-veloce”, momenti che vennero detti “tempi” o “movimenti”. Le Sinfonie Op.9 di Johann Christian Bach, per esempio, uno dei figli del grande Johann Sebastian, o quelle giovanili di Mozart, seguono questo schema. Normalmente, il primo è il più lungo e il più elaborato, perché l’attenzione dell’ascoltatore è ancora fresca, ed è organizzato nella cosiddetta “forma-sonata” (e cosa sia lo vedremo un’altra volta); gli si dà un po’ di tregua col movimento lento centrale, di architettura variabile; e lo si manda a casa con un semplice e frizzante Finale, di solito in forma di “rondò”, dove il ritornello sempre uguale rende il movimento facile da seguire, oppure di nuovo in “forma-sonata” ma più semplice.
A questo modello venne aggiunto, negli anni Settanta-Ottanta del Settecento, un quarto movimento, di solito fra il tempo lento e il Finale: un minuetto. Perduta la funzione originaria di danza galante di corte, il minuetto da sinfonia divenne presto il momento “grazioso” della composizione, contrapposto alla costruita solidità del primo, alla calma pensosa del secondo e alla briosa allegria dell’ultimo.
È in questo schema a quattro, Allegro-Adagio-Minuetto-Finale, che la sinfonia trovò finalmente la sua forma definitiva, consolidata a metà Settecento dalla cosiddetta “scuola di Mannheim”, in cui spicca il compositore ceco Johann Stamitz con le sue cinquantotto Sinfonie. Ne sono esempi classici le Sinfonie mature di Mozart (la “Haffner”, la “Praga”, la “Linz”, la “grande in sol minore”, la “Jupiter”), tutte quelle di Franz Joseph Haydn, spesso con soprannomi curiosi (“il distratto”, “l’orso”, “la gallina”, “la sorpresa”, ecc.), che con le sue centoquattro è detto il “papà” della sinfonia, e in parte le nove di Beethoven: tre autori che costituiscono la cosiddetta “prima scuola di Vienna”.