No. Robert Schumann non allevava aquile. Ma forse ne ha scoperta una. Un aquilotto, per la precisione.

                Testa calda, Schumann. Nato a Zwickau l’8 giugno del 1810, mostra fin da bambino un precoce talento musicale e una sensibilità speciale per la poesia. Ma con la musica non si mangia, secondo i suoi. E così lo mandano a Lipsia a studiare Giurisprudenza. Più che studiare, Robert segue le lezioni di pianoforte di Friedrich Wieck. Il quale ha una figlia, Clara, pianista anche lei, nove anni più giovane di lui, che dopo pochi anni diventa il suo scopo di vita. I due si innamorano pazzamente, ma il padre di lei li osteggia in tutti i modi. Uno con la testa fra le nuvole come quel Robert, con quelle sue composizioni così nuove, stravaganti, non sarebbe mai stato un buon marito e un buon padre di famiglia per Clara, che, nonostante la giovane età, era già una pianista in carriera. Il talento per suonare e comporre c’era, per carità. Ma quel vizietto dell’alcol e soprattutto lo scarso equilibrio mentale non erano dei bei segnali…

                E invece marito, Robert, lo divenne, e anche padre. Di otto figli. La coppia si sposò nel 1840. Il matrimonio andò avanti fra alti e bassi. Nel 1853 entrò nella vita della coppia un giovane pianista di vent’anni. Quando si mise al pianoforte, suonò in modo così straordinario, che Robert andò a chiamare la moglie per farglielo ascoltare. Quel pianista era Johannes Brahms, e di strada ne avrebbe fatta. Non solo nella musica, ma nel cuore di Clara.

                Un anno dopo, i segni di squilibrio di Robert si manifestarono in tutta la loro violenza. Nel 1854 tentò il suicidio gettandosi nel Reno. Fu salvato da dei barcaioli e, per sua esplicita richiesta, venne internato nel manicomio di Endenich, presso Bonn. Da Endenich uscì e rientrò a fasi alterne. Fu tuttavia un progressivo scivolare nella pazzia. Morì meno di due anni dopo, il 29 luglio 1856.

                Come potesse sentirsi Clara, con una carriera da concertista da mandare avanti e i figli da mantenere, è facile capirlo. Fu durante il declino del marito, probabilmente, che i rapporti fra lei e Johannes, detto da Robert affettuosamente il suo «aquilotto», si fecero più stretti. Al punto che non si è mai capito se i due, dopo la morte di Robert, divennero amanti o rimasero amici. Che cosa li legava? Affetto? Amicizia? Stima? Amore? Forse un insieme di tutte queste cose. Il loro sentimento, ad ogni modo, rimase fortissimo e crebbe lungo gli anni. Johannes, che letteralmente la adorava, le chiedeva consigli sulle sue composizioni e Clara li dispensava volentieri. Rimasero “amici” per quarantatré anni, fino alla morte di lei, nel 1896. Del loro rapporto vollero distruggere buona parte delle prove, bruciando chissà quanti fasci di lettere. Ne sono sopravvissute più di settecento, pubblicate per la prima volta nel 1927 sotto la supervisione della primogenita di Robert e Clara, Marie: quanto basta per darci un’idea della vita quotidiana di Clara, fra preoccupazioni economiche e discussioni musicali, così come del giovane “Hannes”, della sua evoluzione artistica e di un lato “tenero” della sua personalità cui di solito si pensa poco: si ha sempre l’idea di un Brahms severo come la sua musica, con

quella figura dalla lunga barba bianca che i profani scambiano per Babbo Natale o Darwin (sì, davvero). Eppure, ogni persona ha un mondo, dentro, che non sempre vuole mostrare.

                Sul rapporto tra Clara e Johannes si è interessato anche il cinema: Canto d’amore, del 1947, è un film di Clarence Brown su questo rapporto unico nella storia della musica, basato su un testo teatrale di Bernard Schubert e Mário Silva.

                “Hannes” non sopravvisse molto alla scomparsa di Clara: meno di un anno dopo, nel 1897, un tumore maligno al fegato se lo portava via. L’ultima cosa che fece fu gustare un bicchiere di buon vino del Reno. Brahms fu infatti molto appassionato di vini, ma questa è un’altra storia…

 

 

Christian Speranza