(Christian Speranza) Il nome di Anton Bruckner non è tra quelli che più ricorrono nei palinsesti delle sale da concerto. E non è neanche un nome così noto al di fuori degli appassionati o degli addetti ai lavori. Le sue Sinfonie, spesso tacciate di pesantezza, di eccessiva lunghezza, di farraginosità, rappresentano per certi versi un unicum nel panorama del tardo Ottocento mitteleuropeo: spesso definito “masso erratico” della musica, anzi, della Musica, con la M maiuscola, in quanto impossibile da etichettare se non come tardoromantico, Bruckner stentò ad affermarsi in vita, raggiungendo la fama solo dopo i sessant’anni, assurgendo solo post mortem all’empireo dei grandi e andando a formare la cosiddetta “quarta B” dei compositori tedeschi, assieme a Bach, Beethoven e Brahms. Coi quali peraltro contrasse rapporti per così dire “a distanza”: la sua innegabile abilità come organista, che lo portò in tournée a Parigi e a Londra, rispettivamente nel 1869 e nel 1871, lo accomuna con Bach, di cui condivideva la grande capacità improvvisativa, caposaldo da sempre dell’arte organistica. Quasi mai i suoi concerti avevano come oggi un programma: tutto era nelle sue mani – e nei suoi piedi. Da Beethoven prese come modello la Nona Sinfonia, di cui cercò di replicare alcune caratteristiche in quasi tutte le sue Sinfonie, e la Missa Solemnis, i cui esiti più felici, a tacere della Messa in mi minore, furono la Messa in re minore e la Messa in fa minore. Da Brahms non prese niente, se non critiche e bastonate. Li separavano soltanto nove anni, Bruckner essendo nato il 4 settembre 1824 ad Ansfelden, in Austria, Brahms ad Amburgo il 7 maggio 1833. Ma tra loro si erigeva un muro invalicabile. Due concezioni diametralmente opposte della musica li separavano. E l’unica volta che li fecero pranzare assieme, all’«Istrice rosso» a Vienna, nel 1889, non trovarono di meglio da dire che concordare sulla bontà dei canederli.
Il fatto è che Brahms si ergeva a paladino della cosiddetta “musica assoluta”, in cui la musica, rifacendosi al «buon tempo antico», non doveva significare altro da quel che era: una Sinfonia, una Sonata, un Concerto. In questo era spalleggiato dal critico più importante di Vienna, Eduard Hanslick. Vice versa, Bruckner non nascose mai le sue simpatie per la “musica dell’avvenire”, ovvero quella che faceva capo a Wagner, a Liszt e a tutti i compositori che piegavano l’armonia ad espressività mai concepite fino a quel momento. Sebbene con la Prima e con la Seconda Sinfonia qualche consenso lo riscosse, fu con la dedica della Terza a Wagner, “in segno di profonda ammirazione e rispetto”, che Bruckner si giocò la simpatia di chi parteggiava per la fazione opposta. Di lì a tacciarlo di essere un wagneriano, il passo fu breve. Eppure, a ben vedere, mentre Wagner asseriva che con la Nona di Beethoven la Sinfonia era morta, e calava la dimensione sinfonica in quella operistica, Bruckner non compose mai un’opera ed è oggi famoso soprattutto per le sue Sinfonie. Erano poi così diversi, allora, Bruckner e Brahms, che non compose mai un’opera e le cui quattro Sinfonie sono altrettanti capisaldi del secondo Ottocento tedesco?
Il fatto è che Bruckner si avvicinò tardi alla Sinfonia , in un momento, gli anni Sessanta dell’Ottocento, in cui il genere sinfonico era in crisi (abbandonato lo spirito di Beethoven nel 1824 con la Nona, esso vagò tra Schubert, Mendelssohn e Schumann, senza trovare sul serio qualcuno che avesse davvero qualcosa di rivoluzionario da dire. Per la verità qualcosa di diverso lo aveva detto Schubert con la sua “Grande” in do maggiore, altro modello bruckneriano per passare dal bi- al trimatismo, ovvero all’impiego di tre temi anziché due nei movimenti sinfonici). La Prima Sinfonia la scrive che ha circa quarant’anni. Ma il Bruckner pre-sinfonico, completamente oggi ignorato dai programmi concertistici, vanta numerose prove soprattutto nel campo del sacro. E questo ha bisogno di una spiegazione.
Nato, come si diceva, ad Ansfelden, primo di undici figli di una famiglia modesta, il piccolo Anton venne avviato ad essere un maestro di scuola e occasionalmente ad accompagnare la Messa all’organo o a suonare il violino nelle osterie del paese. Rimasto orfano, nel 1837 entra come cantore nell’abbazia di Sankt Florian, presso Linz. E lì rimane folgorato. Dalla chiesa, naturalmente. Dal sacro. Dalla fede cattolica, di cui resterà sempre un fervente praticante. E dall’organo. Un organo così non l’aveva mai visto. E negli anni maturò la decisione di farsi seppellire nella cripta sotto quell’organo, dove riposa ancor oggi. A Sankt Florian studia, cresce, pensa anche di farsi prete, e inizia a comporre. Presto insorgono però alcune nevrosi che lo accompagneranno per tutta la vita, come l’inseguimento di diplomi, certificati e attestati. intanto, diventa maestro di scuola e viene nominato organista ufficiale dell’abbazia. Nelle sporadiche visite a Vienna conosce Simon Sechter, insegnante di armonia e contrappunto. Gli sottopone la sua Missa solemnis. Sechter non ne è propriamente entusiasta, ma capisce che c’è del buono in quel ragazzo. Inizia così con lui un ciclo di lezioni di sei anni, tenute per corrispondenza Vienna-Sankt Florian, in cui il maestro vieta tassativamente all’allievo di comporre. Bruckner si atterrà quasi alla lettera, e non vergherà altro se non gli esercizi che poi manda a correggere. Al termine dei sei anni, nel 1861 supera brillantemente, manco a dirlo, gli esami, e ottiene il certificato di Maestro di Musica dal Conservatorio di Vienna. Ma pronto non si riterrà mai. Nel 1862 rincomincia a studiare con Otto Kitzler, direttore d’orchestra del Teatro di Linz, che lo inizia alla conoscenza dei “neo-romantici”, Wagner in testa. Wagner, che riesce a conoscere nel 1865 a Monaco per la prima assoluta del Tristan und Isolde, opera divisiva sotto molti punti di vista. Ed è tra il 1865 e il ’66 che prende forma la sua Prima Sinfonia.
Troppe emozioni, studio intensissimo, insicurezze e fragilità emotive, ossessione della morte, dati i numerosi fratelli morti in tenera età. Mancanza di affetto data dal non aver trovato ancora una brava ragazza (non la troverà mai, in realtà: affascinato da fantesche, cameriere e servette, al più figlie di artigiani o borgomastri, rigorosamente giovanissime per poterle presentare caste dinanzi all’altare e un po’ ignorantelle per poter far loro da Pigmalione, Anton ignorava che le ragazze fossero molto più furbe di quanto sospettasse: e collezionò soltanto due di picche…): troppo tutto assieme. Nel 1867 un esaurimento nervoso lo costringe a un ricovero presso la stazione termale di Bad Kreutzen.
Si riprenderà, cercando di far pace con le sue manie, tra cui quella di contare tutto. Un giorno, accortosi di non aver contato bene gli alberi dal finestrino del treno, scese e li ricontò uno ad uno. Inutile dire che perse il treno… ma ecco che l’anno dopo, nel 1868, la morte del suo vecchio maestro Sechter lascia un posto vacante al Conservatorio di Vienna: e ad occuparlo chiamano proprio lui.
Si trasferisce così a Vienna con la sorella Nani, che morirà l’anno dopo, nel 1870, fra una tournée organistica e l’altra: quella francese e quella inglese di cui abbiamo parlato prima.
Accanto alle composizioni sacre che continuano comunque a sgorgare, in un ciclo creativo miracoloso nascono di getto la Seconda (1872), la Terza (1873), la Quarta (1874) e la Quinta Sinfonia (1875-76), in cui consolida un modello di sinfonia sostanzialmente da lui reinventato. Qualche successo privato, come l’essere nominato docente di armonia e contrappunto all’Università di Vienna nel 1875 e ricevere l’invito da parte del suo idolo Wagner per la prima assoluta dell’Anello del Nibelungo a Bayreuth, la monumentale tetralogia di opere dedicate a Sigfrido, durata complessiva oltre quindici ore (!!!), si accompagnano a cocenti delusioni sul piano artistico e personale. Non solo i frequenti due di picche, ma insuccessi delle sue Sinfonie. La Seconda, prima di essere accolta dai Wiener Philarmoniker, deve essere rivista e viene rimandata di un anno. La Quarta dovrà aspettare il 1881 per la sua prima esecuzione, uno dei suoi trionfi indiscussi. La Terza, quella dedicata a Wagner, con cui cancella ogni possibilità di altre accoglienze viennesi, viene eseguita nel 1877 ed è un fiasco colossale. Ai pochi rimasti in sala fino alla fine che volevano consolarlo, risponde in lacrime, in dialetto austriaco: «Lasciatemi solo! Non vedete che non ne vogliono sapere di me?». A consolarlo fu un suo giovane allievo, all’epoca diciassettenne: un ancora sconosciuto Gustav Mahler, che si offrì di curare della Terza la riduzione per pianoforte a quattro mani…
Per la Quinta non si preoccupò nemmeno di farla eseguire (sarà riesumata solo due anni prima della sua morte, nel 1894, ed eseguita in forma pesantemente alterata). A nessuno pareva importare dei suoi giganti sinfonici da un’ora l’uno. La Sesta, nata tra il 1879 e il 1881, è l’unica che non sia passata per versioni e revisioni continue al fine di migliorare e rendere più eseguibili quelle partiture giudicate difficili, ineseguibili, insuonabili, quando non addirittura di brutto gusto. Dopo la Quinta Bruckner si arresta in un labirinto quasi senza uscita in cui inizia a riscrivere e rivedere praticamente ogni sua composizione. La Terza arriverà a tre versioni, la Quarta a quattro (qualcuno ne conta in tutto sei…).
Ma tutto ciò era forse un passaggio obbligato verso il riconoscimento di una gloria che stentava ad arrivare. Come se si fossero accorti di lui solo adesso, due nuovi giganti, nati quasi assieme, il Te Deum per soli, coro e orchestra, e la Settima Sinfonia, scritti tra il 1881 e il 1883, l’anno in cui muore il suo amato Wagner, lo rivelano all’ambiente culturale tedesco. Tedesco, non austriaco: perché le esecuzioni della Settima che gli danno finalmente la notorietà sono quella di Lipsia del 1884 e di Monaco del 1885. Vienna continuerà a restare distaccata nei suoi confronti. Ma grazie alla direzione di Hermann Levi, la Settima è un successo.
Di buona lena, si rimette sotto e in tre anni compone l’Ottava, la più ambiziosa. Nel 1887 la spedisce allo stesso Levi, ma ecco che il suo rifiuto di eseguirla, perché giudicata (guarda caso) difficile e incomprensibile, lo getta di nuovo nell’insicurezza più totale. Lascia così da parte la Nona, che aveva appena iniziato a comporre, e anziché revisionare l’Ottava, convinto ancora di doversi “fare la mano”, provvede a revisionare tutte le altre Sinfonie, risalendo fino alla Prima. Così facendo, l’Ottava è pronta in seconda versione tre anni dopo, nel 1890. Ma, insicuro com’è, la sua versione a stampa vedrà il suo consenso ad altre modifiche fatte (per carità, in buona fede) dai suoi allievi, i fratelli Franz e Joseph Schalk, assieme a Ferdinand Löwe.
Intanto l’età avanza. È stanco, malato di diabete. Ha i piedi gonfi d’acqua, non suona più l’organo, salire le scale del Conservatorio gli resta sempre più difficile, anche se scherza con gli allievi dicendo: «Meglio avere l’acqua nelle gambe che nel cervello!». Nel 1891 tiene l’ultima lezione e lascia l’incarico al Conservatorio. Nel 1894 lascia anche l’Università.
Nel 1895 l’imperatore Francesco Giuseppe, al quale aveva dedicato la sua Ottava, gli concede addirittura una stanza nel palazzo del Belvedere di Vienna: onore mai concesso a nessun altro compositore. In questa quiete si rimette finalmente al lavoro sulla sua Nona Sinfonia. Arriva a comporre i primi tre movimenti, ma il Finale, quello rimane sempre difficile da scrivere, come per tutte le altre Sinfonie. Nella sua concezione, il Finale deve essere il movimento che riassume, conclude e supera l’intera Sinfonia. È il movimento al quale devono tendere gli altri tre, come una sorta di percorso preparatorio.
La mattina dell’11 ottobre 1896 sta appunto lavorando al Finale della Nona. Un brivido lo scuote tutto e si mette a letto. Chiede del tè caldo e la cameriera glielo porta. Poche ore dopo, la cameriera lo trova con ancora in mano gli ultimi fogli del Finale della Nona. Ormai fra gli angeli.
A duecento anni dalla sua nascita, Bruckner non è ancora stato compreso. Un certo ostracismo continua a pesare sulle sue Sinfonie; e gli enti che sporadicamente ne programmano una sembra compiano l’impresa del secolo. Negli anni Ottanta fu il pionierismo del Comunale di Bologna a proporle tutte in un ciclo di due anni. Oggi in Italia è ancora raro ma non impossibile ascoltare qualcosa di suo, ma a parte Quarta, Settima e Ottava, pare che Bruckner non abbia scritto altro. Diversa è la situazione all’estero, dove a Linz e a Sankt Florian le esecuzioni bruckneriane non si contano. «Il mio tempo verrà», disse Mahler. Verrà un giorno anche quello di Anton Bruckner?