(Christian Speranza- Torino) Prendiamo Il corsaro di Verdi. Atto primo. Dopo il Preludio, i corsari decantano la loro vita avventurosa in un coro fuori scena. Udendoli, il loro condottiero, Corrado (tenore), riflette tra sé e sé: loro sì, sono forti e coraggiosi; ma io sono in continua lotta col il mondo, odio il genere umano, sono temuto e maledetto per colpa loro, ma sono stato vendicato! E lo dice con queste parole.
Fero è il canto de’ prodi miei consorti!…
Ah! sì, ben dite… guerra…
Perenne, atroce, inesorabil guerra
Contro gli uomini tutti…
Io per essi fui reo… tutti li aborro!
Temuto da costor ed esecrato,
Infelice son io, ma vendicato!
Che cosa abbia fatto per dire queste cose, non si sa. Corrado non ha un passato. Sappiamo solo quel che ci dice. E ce lo dice nei due metri che la poesia librettistica usa per i momenti di narrazione: l’endecasillabo e il settenario. La musica di questa prima parte, nel linguaggio delle opere dell’Ottocento detta “scena”, segue l’umore del personaggio e le pieghe della parola. Essendo “narrativa”, non ha una struttura regolare né nei versi, né nelle rime.
Subito dopo, Corrado si abbandona ai ricordi. Un tempo tutto mi girava bene, sembra dire; ma poi, la sorte mi ha portato via tutto, e ora sono costretto ad essere quasi un criminale (a differenza dei pirati, fuorilegge dediti al saccheggio, i corsari erano al soldo del governo e autorizzati a requisire navi ostili attraverso un “permesso” detto “lettera di corsa”; ma è da credere che non fossero proprio dei gentleman…). Che cosa sia successo, non lo sappiamo. Ma nell’economia dell’opera non serve saperlo. E Verdi non ce lo fa sapere. Ci comunica però lo stato d’animo di Corrado con una musica molto più orecchiabile, più dolce, più – come si dice – “cantabile”. Ecco perché questa seconda sezione viene detta, appunto “cantabile”, o “aria”.
Tutto parea sorridere
All’amor mio premiero:
L’aura, la luce, l’etere
E l’universo intero;
Ma un fato inesorabile
Ogni ben mio rapì…
Più non vedrò risorgere
Dell’innocenza il dì.
Salta subito all’occhio la differenza di struttura, qui molto più regolare: due strofe di 4+4 settenari con identico schema di rime. La musica non segue necessariamente lo stato d’animo del personaggio: piuttosto, lo sublima nella sua bellezza. L’artista ha modo di mettere in luce le sue abilità grazie a tutta una serie di qualità da sfoggiare: lunghezza del fiato, effusione lirica, delicatezza nel porgere la parola e abilità nel tornirla, in certi casi passaggi di agilità, le cosiddette volatine o fioriture: in una parola, espressività.
Normalmente, alla fine di questa sezione arriva l’applauso. E se pur rappresenta un moto spontaneo di apprezzamento, in realtà spezza la continuità di uno schema di quattro parti. Corrado infatti ha appena finito di abbandonarsi alla malinconia del tempo passato, che Giovanni, un altro corsaro, consegna una lettera che gli ordina di salpare. Segue un breve dialogo col coro, che si dichiara pronto a seguirlo. I versi diventano ottonari, ma poco importa. Quel che è importa è sottolineare che in questa terza sezione, detta “tempo di mezzo”, è successo qualcosa: la lettera con l’ordine di salpare smuove le acque (è il caso di dirlo!), mette in moto l’azione dell’opera in quella che Vladimir Propp chiamava “accettazione della missione” da parte dell’eroe.
Ed ecco seguire la gagliarda, energica risoluzione di Corrado di distruggere il potere del pascià Seid.
Sì: de’ corsari il fulmine
Vibrar disegno io stesso;
Dal braccio nostro oppresso,
Il Musulman cadrà.
E poi, tutti insieme:
Teco riuniti intrepidi
Cadiam sull’empia Luna;
Qual possa in noi s’aduna
Il vile apprenderà!
Il metro torna al settenario in questa sezione conclusiva detta “cabaletta”. Mentre Bellini affermava di comporle solo perché vi era costretto, per Verdi le cabalette furono lo stigma per colpa del quale venne etichettato “zumpappà”. Lo “Zumpappà” verdiano è un po’ un suo marchio di fabbrica, e lo si sente bene nell’introduzione strumentale anche di questa. La sua funzione è fare da sprone ritmico.
La cabaletta viene in genere ripetuta, e se il cantante è bravo, nella ripetizione inserisce piccole variazioni non scritte per dare quel tocco di interpretazione personale previsto anche dal compositore. In molti casi, la ripetizione viene invece omessa o, come si dice, “tagliata”. È il tipico pezzo di bravura in cui prevalgono la fierezza e la forza del canto, una melodia breve e facile da memorizzare (pensiamo a Di quella pira), anche perché è l’ultima che si ascolta, e un bell’acuto finale strappa-applausi.
Questo schema in quattro sezioni – scena, cantabile, tempo di mezzo, cabaletta – costituisce l’ossatura di quasi tutti i “numeri chiusi” delle opere all’italiana. L’abilità di un librettista, in questo caso Francesco Maria Piave, consiste sì nel saper verseggiare, ma soprattutto nel saper maneggiare questa “solita forma” (così la definì per primo Abramo Basevi già al tempo di Verdi, segno che si era già affermata da tempo) organizzandovi lo schema narrativo dell’opera, da una parte seguendo l’intreccio della trama, dall’altro favorendo i cantanti.
Una “solita forma” può prevedere una voce sola o anche due – duetto –; il coro può esserci come in questo caso, oppure, no. Ciascun compositore la piegherà poi alle proprie esigenze espressive. Bellini per esempio la allungherà al punto da renderla fluida e non più meccanica come a volte accade. Wagner direttamente la rifiuta e rivoluzionerà l’opera abolendo i “numeri chiusi”. Ma questa è un’altra storia…