(Christian Speranza-Torino) «L’orrore! L’orrore!» sussurra Kurtz alla fine di Cuore di tenebra. Trasposto in altro contesto, è ciò che il programma del diciannovesimo concerto della stagione Rai, giovedì 2 maggio 2024, replicato venerdì 3, vorrebbe suscitare. E se, come diceva Kafka, «ciò di cui abbiamo bisogno sono quei libri che […] ci perturbano profondamente», per scuotere la generazione attuale, che una bolla di relativa pace ha (per fortuna e finora…) preservato da eventi bellici diretti, c’è bisogno di riesumare pezzi come quelli di questo concerto, tutti nati sotto l’influenza del secondo conflitto mondiale.
Si parte con la Symphony in three movements di Igor Stravinskij, nata frammentariamente negli Stati Uniti fra il 1942 e il 1945, grosso modo gli anni in cui il suo connazionale Šostakovič sfornava in Russia la trilogia delle sinfonie di guerra, Settima, Ottava e Nona. Ma a differenza del più politicamente impegnato Dmitrij, il più esterofilo Igor mette assieme, più che una vera sinfonia, tre movimenti sinfonici nati da spunti eterogenei (il secondo addirittura come colonna sonora abortita).
Sul podio dell’auditorium Arturo Toscanini di Torino torna Robert Treviño, chiudendo idealmente un dittico di concerti che, col precedente, di cui s’è dato conto, ha più di un punto in comune. Oltre al direttore, prima di tutto, l’orchestra, la superba Orchestra Sinfonica Nazionale (OSN) che anche stavolta ha impressionato, al netto di qualche veniale défaillance verso la fine, per precisione, coordinazione e nettezza di suono. Particolarmente ben riusciti sono stati il primo movimento, ritmo sincopato da ragtime e marcata drammaticità figlia minore delle deflagrazioni del Sacre, e il secondo, di stampo più neoclassico, dove ha brillato soprattuto l’ottima sezione dei legni.
Altro fil rouge a connettere questo concerto col precedente è John Adams, di cui la scorsa volta è stato presentato in prima torinese Rai City Noir e di cui stavolta si presenta, anche qui in prima torinese, Doctor Atomic Symphony, del 2007: una sorta di suite in un movimento dall’omonima opera del 2005 sul Progetto Manhattan, rivissuto attraverso le esperienze di Oppenheimer. Ai bombardamenti nucleari giapponesi sono stati dedicati diversi brani – irrinunciabili almeno la Trenodia di Penderecki, Nagasaki di Schnittke e Voiceless Voice in Hiroshima di Hosokawa –; ma poco o niente sull’origine delle bombe a Los Alamos. Adams lo ha fatto. Ed è sufficiente questa suite a suscitare l’orrore di Conrad. The Laboratory, la prima delle tre sezioni, è un preludio di grande efficacia, che punta su dissonanze estreme e sull’uso dell’orchestra allargata, con notevole uso di percussioni – tra le tante, macchina del tuono, gong intonati, campane. Segue Panic, in cui la rapinosa scrittura degli archi, peraltro qui stupefacenti come al solito, trasmette la paura dei tecnici durante la tempesta elettrica poco prima del test. Ma è Trinity, la terza e ultima sezione, la più convincente. All’ottima prima tromba di Marco Braito è affidato il lungo assolo che nell’opera è la lettura del sonetto di John Donne Batter my heart, three-person’d God da parte di “Oppie”, ove si colgono anche echi di passaggi “eroici” alla Morricone. La suite termina con un grandioso crescendo che, più che incarnare lo scoppio di The Gadget, chiude gli occhi un secondo prima, e si arresta nel raccontare ciò che è meglio che, in chi non l’ha visto, resti, solo una fantasia… Treviño e l’OSN ne danno una lettura magistrale ed emotivamente molto coinvolgente. Al termine, l’abbraccio del direttore a Braito è più che dovuto.
Il tempo di un caffè, e il virtuosismo orchestrale può dare il suo meglio nella Symphony nº2: The Age of Anxiety di Leonard Bernstein. Anche “Lenny”, come “Oppie”, ha avuto recentemente gli onori del grande schermo; ma, nonostante sia conosciuto soprattutto come direttore, il suo catalogo enumera molte composizioni oltre alla più famosa West Side Story. Questa sinfonia con pianoforte solista in due tempi permette di cogliere tutto l’eclettismo del suo autore, dall’intimità raccolta del primo tema, sussurrato dai clarinetti all’inizio, nelle abili mani di Enrico Maria Baroni e Lorenzo Russo, e dal pianoforte alla fine, sino ai passaggi scopertamente jazzistici afroamericani, con l’uso di rullante, bongo e woodblocks, passando per due set di sette variazioni ispirate al poema di Winstan Auden che dà il titolo al brano. Scritta nel dopoguerra, nel 1949, e revisionata nel ’65, la Sinfonia si ispira a un incontro immaginario di quattro personaggi nel 1944. Al pianoforte, Yulianna Avdeeva, pluripremiata concertista già ospite dell’OSN, che colpisce per sensibilità di tocco, delicatezza dei pianissimi, ai limiti dell’udibile, e briosa verve dei passaggi di bravura.
Ma dall’orrore si può anche uscire. E le battute finali della Symphony di Britten, improntate a un trionfalismo vagamente mahleriano di cui non ha la stessa potenza, più speranzoso che davvero affermativo, sono lì a rammentarcelo.